Autopsia letteraria: ’14 di Jean Echenoz

Copertina di 14Ispezione esterna

La Prima Guerra Mondiale, detta Grande Guerra, che viene chiamata da noi anche “Guerra del 15-18”, è iniziata nel ’14.
E questo già dice tante cose.
L’Italia ha vissuto quella guerra in modo strano; basti pensare che Sandro Pertini, settimo Presidente della Repubblica Italiana, venne insignito della medaglia d’argento al valor militare, perché “senza concedersi sosta alcuna, animato da elevatissimo senso del dovere, con superlativa audacia e sprezzo del pericolo, avanzava primo fra tutti verso le munitissime difese nemiche, vi trascinava i pochi suoi uomini e debellava una dietro l’altra le mitragliatrici avversarie numerosissime e protette in caverne. Contribuiva così efficacemente alla conquista di ben difesa posizione nemica catturando numerosi prigionieri e bottino importante. Bellissima figura di eroismo ed audacia”. Un’azione di guerra del 1917, premiata solo nel 1985.

L’idea del libro è venuta a Jean Echenoz dopo aver trovato, abbandonato in un baule, il diario di un lontano parente. Leggendo della guerra ha deciso di documentarsi, e documentandosi ha deciso di scrivere.
In un’intervista a La Stampa, Echenoz racconta che in Francia sono molto più sentiti i festeggiamenti per la Prima Guerra Mondiale, che per la Seconda. Non è così da noi e la Grande Guerra, coi suoi dieci o venti milioni di morti, seguita dalla febbre spagnola, oggi quasi dimenticata ma che ha causato, secondo le stime peggiori, altri cinquanta o cento milioni di morti, è passato col tempo in secondo piano. Eppure non mancano esempi illustri di letteratura italiana a riguardo.
Echenoz comunque decide di affrontare più di quattro anni di guerra in 102 pagine (scritte a caratteri grossi), con una capacità di sintesi e di profondità quantomeno invidiabile, a cominciare dal titolo: ’14.

La trama in una riga. Anthime ama Blanche che ama Charles. Scoppia la guerra: Anthime e Charles partono. Charles muore. Finisce la guerra.

Dissezione

Premessa importante: Jean Echenoz è francese, e come la maggior parte dei francesi scrive in francese.
Mia nonna Clara era nata a Parigi, la famiglia veniva da Ginevra, e lei parlava spesso francese in casa, con mio padre, che le rispondeva in francese. La casa era piena di libri in francese. Anche mia madre parla francese fluentemente, lo legge, e io sono stato parecchie volte in Francia, fin da piccolo. Ed ecco che io non riesco ad articolare nemmeno una frase elementare in lingua francese, figuriamoci leggere un romanzo. Chiamato dallo Stato Italiano a verbalizzare in lingua francese scrissi, per indicare tre giorni: truá. Ho i testimoni.

Questa premessa non è fine a sé stessa, perché se conoscessi bene il francese potrei dissertare delle differenze fra passé simple (che dicono corrisponda al passato remoto e si usi più che altro nella lingua scritta) e il passé composé (che dicono corrisponda al passato prossimo e si usi più che altro nella lingua parlata). Invece potrò concentrarmi solo sulla lingua che conosco e in effetti ’14, romanzo del 2012 edito in Italia da Adelphi nel 2014, è stato tradotto da Giorgio Pinotti utilizzando un mirabile passato prossimo in terza persona singolare.

Una delle mattine seguenti, simile a tutte le altre, la neve ha deciso di cadere…
Ormai pronta, Blanche ha sceso le scale con discrezione…
Anthime si è ritrovato nel bel mezzo di un campo da battaglia…
Le offensive di primavera hanno consumato in due mesi una enorme quantità di sodati…

[Qui si trovano alcune pagine dell’originale francese, messe a disposizione da Édition de Minuit]

Il passato prossimo come tempo principale, lungi dall’innestarsi nella nota diatriba linguistica fra nord e sud del nostro paese (sono andato a Milano – andai a Palermo), fornisce alla narrazione della tragedia bellica, distante da noi ormai un secolo, una dimensione straniante, a tratti fiabesca, perché sono le fiabe che insegnano ai bambini cosa siano la morte, l’uccisione, la crudeltà.
Di storie raccontate al passato prossimo sono piene le librerie, ma si tratta di un tempo che solitamente viene accoppiato alla prima persona singolare, provocando un effetto ben diverso, quello colloquiale, più vicino al parlato del personaggio narrante (come ad esempio in Niccolò Ammaniti, Io non ho paura).
In ’14, al passato prossimo si appoggiano l’imperfetto, per la continuità dell’azione, e il trapassato prossimo (piuccheperfetto) per l’anteriorità, espungendo ogni tipo di passato remoto.
Di rado Echenoz utilizza il presente. Lo fa nell’intero capitolo 7, per descrivere lo schianto del biplano sul quale Charles è osservatore. Un solo capitolo, e un intero capitolo, dedicato al volo aereo nella Prima Guerra Mondiale; ma nel capitolo, come detto, accade anche un evento cruciale per la storia, la morte di Charles, che avrà un importante influsso sulla trama.

Una tecnica costante in ’14, quella dei capitoli antologici, nei quali la storia procede comunque. Come nel capitolo 12, dove lo sguardo dell’autore plana sugli animali e la guerra: cavalli, cani, tori, oche, lepri, cinghiali, volpi, rane, piccioni, ma anche pidocchi e topi. Oppure nel capitolo 5, che mostra attraverso gli occhi di una ragazza, Blanche, la città desolata, abbandonata dagli uomini che sono partiti per la guerra.

Due soldati e mulo tutti con maschera antigas

Indagine istologica

Alcuni elementi specifici meritano di essere approfonditi.
Nel capitolo 10 Anthime si è ormai abituato alla vita in trincea, circostanza questa tanto tragica che Echenoz vuole comunicarla al lettore in modo penetrante. Ecco perché la narrazione si sposta dal passato prossimo al presente, dalla terza persona singola alla seconda.

Anthime ha avuto giusto il tempo di trovare e leggere una lettera […] quelli di fronte ne avevano prese altre due […] Il cannone che tuona […] pallottole che fischiano […] la minaccia è ovunque […] senti il nemico picconare di nascosto […] Ti aggrappi al fucile, al coltello […] l’odore di stantio te lo senti addosso

Un pezzo in seconda persona che proietta il lettore nel disagio della trincea, nell’abitudine alla morte, negli odori e nelle percezioni. E l’assuefazione è il vero sintomo della perdizione, come quella dei genieri che, impegnati a stendere i cavi del telegrafo, sudati, dopo essersi tolti il cappotto, usano le braccia disarticolate dei cadaveri come appendiabiti.
Un pezzo, insomma, abbastanza mirabile da essere stato scelto da Adelphi per il risvolto di copertina.
E che dire del traduttore, Giorgio Pinotti, che senza alcun tentennamento si esibisce in una costruzione di condizionale fuori dal tempo (pag. 97):

Se non ne avrebbe parlato, la ragione sta anzitutto nel fatto che è riuscito forse troppo in fretta a scacciarlo dalla mente

Soldati in trincea

Valutazione finale

La causa del funzionamento di questo romanzo è senza dubbio l’ottima scrittura, che sottende una precisa progettazione della struttura. Questa, nella sua semplicità, riesce ad abbracciare tutti i temi cardine della Grande Guerra, sia quelli generali, comuni a tutte le questioni belliche, sia quelli specifici, quelli che la resero fin da subito una guerra diversa da qualunque altra mai combattuta prima.
La voce di Echenoz è potente in ’14, ma non invasiva, suggerisce anziché predicare, resta riconoscibile, adeguandosi al momento.
Un romanzo che si legge in poco tempo ma che, volentieri, si rilegge spesso.

L’autopsia di un cadavere non è una recensione. Ispezionare l’interiorità di un libro: per la comprensione dei meccanismi organici, la mimesi della finzione.