Ispezione esterna
Quando, nel 2016, l’ISTAT presentò il suo ritratto sugli italiani, la maggior parte della stampa nazionale evidenziò come ben il 15% della popolazione abitasse in città sopra i 250.000 abitanti.
L’italiano medio veniva sostanzialmente descritto come un abitante: della pianura, della città, della Lombardia.
Non posso essere d’accordo, e non è una questione di opinioni. Se infatti è un fatto notevole che il 15% degli italiani sia residente nelle città medio-grandi (solo 12 comuni superano i 250.000 abitanti), bisognerebbe notare come ben l’85% (ottantacinque percento!!!) degli italiani abiti in piccole città, in campagna, nei paesini, in montagna, sulle isolette e in tutti quei posti che non sono Milano, Torino, Venezia, Roma, Brescia, Bologna, Palermo, Ancona e via così.
Peccato che, proprio a Milano, Bologna, Roma e così via, siano in realtà concentrate tutte le testate giornalistiche, le università, i centri di potere, di cultura, tanto da poter ritenere, seguendo l’economista Vilfredo Pareto e l’omonimo principio, che forse il 15% della popolazione italiana prenda l’85% delle decisioni, e viceversa.
Ma tutto questo lo sa bene Alberto Arbasino, che di sé raconta di essere nato a Voghera nel 1930 e (dopo l’Università frequentata a Pavia) “rinato a Roma nel 1957”. Un autore che è planato nella capitale (della bella vita) dopo aver conosciuto la provincia così bene da aver coniato (ne ha rivendicato pubblicamente la paternità) l’espressione “casalinga di Voghera“.
E questa conoscenza e ricerca sugli italiani si vede bene nelle suo opere, sia letterarie (a partire da Le piccole vacanze, 1957, oggi pubblicato da Adelphi), sia saggistiche (Un paese senza, 1980, Garzanti), che in quelle sue tipiche come Ritratti italiani (2014, Adelphi) e Fratelli d’Italia (nelle famose tre edizioni così diverse: 1963 Feltrinelli, 1976 Einaudi, 1993 Adelphi).
Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano
E La bella di Lodi non fa eccezione. Pubblicato originariamente a puntate, nel 1960, su Il mondo diretto da Mario Pannunzio, raccolto in volume nel 1972 da Einaudi, oggi è pubblicato da Adelphi.
È un romanzo indubbiamente sperimentale nel quale, però, a distanza di sessant’anni, si scorge ancora quell’Italia, liquidata come provinciale, che oggi viene troppo spesso sottovalutata.
Non a caso il romanzo inizia proprio paragonando le ragazze di Lodi, categoria a cui appartiene (e in modo prepotente) la protagonista della storia, con quelle di Milano, città così vicina, così diversa, così “superiore” sotto (non me ne vogliano i lodigiani) quasi ogni valore misurabile.
E invece Arbasino racconta proprio di Roberta, la bella di Lodi, e schiude perciò una visione sull’85% di un’Italia eterogenea, da Pantelleria a Pordenone, da Bormio a Isernia, luoghi dalle abitudini che sembrano così distanti da Lodi, ancora più che da Roma o Milano, e invece forse non lo sono poi troppo.
La trama in una riga: La relazione sentimentale e sessuale fra Roberta, una ragazza ricca e procace, e Franco, un meccanico perdigiorno a cui piace la bella vita.
Dissezione
La narrazione è in terza persona singolare, il tempo principale è il presente, con incursioni del passato prossimo.
La storia non si svolge solo a Lodi. Già nel 1960 gli italiani frequentavano luoghi che avrebbero impegnato le traiettorie delle generazioni future: autostrade, autogrill, e le spiagge estive.
Ed è proprio sulla costa vacanziera che si avvia la relazione fra Roberta, non solo benestante ma ricca, e Franco, non solo sbandato ma anche ladro (più per indole che per professione).
Arbasino però non intende raccontare una specifica località balneare, vuole raccontare milioni di persone che si comportano, a migliaia di chilometri di distanza, tutti nello stesso modo. E lo rende grazie a una costante indecisione, un’alea volitiva e descrittiva, che pervade questo avvio. Neppure il luogo è certo: con una leggerezza da grande autore, Arbasino ne indica due, che distano quasi 300 km uno dall’altro.
C’è un carnevale volgare, in distanza, che potrebbe essere Sanremo o Viareggio.
Poi, l’ha visto, o non l’ha visto? […] che dormicchia o finge di dormicchiare […] dorme, o magari finge di dormire, o (chissà) dorme davvero. […] Quindi non sente (o forse finge di non sentire?) che magari lui le arriva strisciando vicino, e sta aprendole la borsetta? o addirittura glie la porta via?
Lo stile di Arbasino, come sempre, è veloce e va dritto al punto. Non piace agli integralisti della lentezza e agli adoratori del prolisso, ma non si tratta della velocità a tirar via, e lo dimostrano, fra le molte tecniche che costellano il romanzo, le frasi nominali, spesso esposte all’inizio dei brevi capitoli, per intonarne ritmo e andamento.
# Un bel sabato ai primi di settembre: qualche mese dopo, perfettamente abbronzati, a casa tutti.
# La prima domenica tiepida, in fine di pomeriggio, alla Roggera, in un gran soggiorno al pianterreno, con parecchie finestre neanche tutte aperte.
# Scarica – fra le più disastrose – di sberle: su e giù, su e giù, le mani di Franco pesantemente sulla faccia della Roberta.
# Ristorante Motta, a cavallo dell’autostrada. Trionfo di cristalli, riflessi, Topi Gigi, alluminio, finto mogano e palissandro, cellophane, pacchetti lussuosamente confezionati di krek e biscotti e zamponi ornati di emblemi di segnaletica stradale, molto abbondanti anche sulle porte d’entrata e d’uscita.
# Roberta sommariamente vestita.
# Su un tratto dell’autostrada Milano-Venezia, con cartelli stradali di località già venete, tramonto rossastro, ma già quasi notte: macchine ferme e piccola folla riunita come per grave incidente, polizia stradale che devia il traffico, curiosi e commenti del cazzo, luci che girano, blu della polizia, gialle del soccorso stradale.
I dialoghi rappresentano in modo magistrale scambi talmente assurdi da trasmettere un senso di realtà assoluto, ricco di comicità impietosa, che diventa perciò tragedia.
«Ma non sei ancora pronta? Qui bisogna andar giù».
Lei meccanicamente si spazzola, e si sta mettendo i gioielli: leggermente troppi.
«Dài, che t’aiuto, fa’ in fretta!» le fa lui, e invece di metterglielene su glie ne tira via.
Lei già un po’ nervosa s’infastidisce.
«Ma cosa fai! Sta’ su!»
[…]
«Ma non hai ancora capito che ti stai bene solo sul semplice? […] Anche perché così non li perdi… non li lasci in giro… non torni senza».
In poco più di 150 pagine Arbasino riesce a raccontare una storia gradevole, sempre divertente, leggera e rapida ma con la profondità del classico; una storia che, anche quando risulta distante (in apparenza) dal lettore, riesce a coinvolgere col suo senso di ineluttabilità.
E le occasioni? Noi siamo stati tirati su con l’idea delle occasioni. Se si compra un capo nuovo, non lo si mette subito tutti i giorni, si aspettano le occasioni. E se qualcuno regala una scatola di cioccolatini o una bottiglia di liquore importante, non si aprono mica subito: si aspetta la prima occasione. Lui invece no…
Indagine istologica
Come nella maggior parte delle opere di Arbasino la riscrittura rappresenta un momento fondamentale. E la storia infatti, fra il ’60 e il ’72, ha subito inclusioni e aggiustamenti che ne hanno modificato lo spirito iniziale, più realista, verso quel risultato più gassoso che possiede oggi.
Notevole il modo in cui, in anni preda di censura e benpensanti, Arbasino riesca a tratteggiare in modo estremamente intenso il substrato sessuale che guida la relazione di una coppia coì diversa.
Il resto dei vestiti è sparso per tutta la stanza in disordine. Le lenzuola sono un disastro. E anche lei ormai gli sta facendo delle cose inverosimili.
Un punto interessante del romanzo è, senza dubbio, l’INTERVALLO fra i capitoli 9 e 10, nel quale il fratello di Roberta fornisce, per i suoi amici sceneggiatori di città (ma non pensiamo a Roma o Milano, si tratta di sceneggiatori di Parma e Modena), la sua versione dei fatti raccontati nel romanzo.
In una lunga sequenza di più di 20 pagine, questo ragazzo di Lodi mescola alla sua lingua provinciale i termini del jet set e del mondo internazionale, le tecniche drammaturgiche e televisive, le contaminazioni che gli servono per reinterpretare una storia, quella fra la bella ricca prosperosa sorella lodigiana e il perdigiorno muscoli e magliette, che diventano in questo INTERVALLO: Electric Woman, e Plastic Man il clown povero.
Una storia, quasi inutile dirlo, improvvisata e insicura, come quando il fratello di Roberta, nella sua narrazione agli amici sceneggiatori, usa come intercalare: “Mettiamo che”.
Valutazione finale
La forza di questo romanzo è molteplice. Rapido, impietoso, divertente, a tratti tenero, succulento, tragico.
Potrebbe sembrare parossistico che questo libro dal titolo provinciale, dalla storia ambientata in una provincia piena di provinciali, scritta da un iriense (Arbasino in realtà non vive più a Voghera da quasi di settant’anni), provenga da un’autore che, a detta di molti, ha fornito un contributo fondamentale allo strappare la letteratura italiana dal provincialismo in cui poltriva.
L’autopsia di un cadavere non è una recensione. Ispezionare l’interiorità di un libro: per la comprensione dei meccanismi organici, la mimesi della finzione.