Il novecento è finito.
Dobbiamo metterci il cuore in pace. È finito diciannove anni fa, se diamo retta ai numeri. È finito ventotto anni fa, se invece ascoltiamo Eric Hobsbawm e il suo Secolo breve. Ventotto anni, e noi ancora qui a sguazzare nelle categorie di un periodo storico che, dopo tutto, potrebbe anche essere stato sopravvalutato.
E di certo è stata sopravvalutata la sua capacità, ereditata dai secoli precedenti, di tagliuzzare la realtà, catalogarla, classificarla, ed è così che l’umanesimo, la creazione, la letteratura, da una parte, e la scienza, i numeri, la razionalità, dall’altra, sono stati separati da un solco, come acqua e olio, liquidi apparentemente destinati a non mescolarsi mai.
Quanta ingenuità nel novecento.
Ma andiamo con ordine. Conosciamo tutti la pistola di Cechov, che poi era un fucile, ma per chi ancora non conoscesse quest’arma russa, inseguiamone i punti chiave.
È il primo novembre del 1889, Checov scrive una lettera a un amico e gli dice più o meno: Caro ragazzo, se metti un fucile carico sul palco, poi a quel fucile deve succedere qualcosa. Caro ragazzo, non fare promesse che non puoi mantenere.
Un’altro amico di Checov, nelle sue memorie del 1911, ne fornisce una versione leggermente diversa e più vicina a quella diffusasi in seguito; ma questo forse dimostra solo che certe ossessioni si fissano nella mente, si evolvono, vivono di vita propria e ci accompagnano per tutta la nostra breve parabola di vita.
Quindi non è nemmeno chiaro se l’idea del grande scrittore fosse quella che è poi diventata un tropo delle serie tv, ovvero che quando compare un’arma, poi quell’arma deve sparare, fatto sta che oggi la pistola di Cechov (che era un fucile) viene interpretata in una maniera ben più ampia e si pone a fondamento della compattezza richiesta dalla drammaturgia: nessun elemento inutile, nulla di superfluo, ogni scena dialogo personaggio, tutto deve avere una funzione nella storia, e una funzione solida.
È un tropo che piace, se oggi la televisione utilizza anche: la mitragliatrice di Cechov, l’esercito di Cechov, l’arsenale di Cechov, il vulcano di Cechov e, scomodando il gatto, perfino la pistola di Schrödinger.
Era il novecento.
[Per chi volesse approfondire i tropi in generale, e soprattutto i loro limiti: Tropici, su I libri degli altri]
Ma la pistola (che era un fucile) è solo un’arma. Per arrivare alla balistica bisogna aspettare Giorgio Manganelli. Lui la chiama balistica discenditiva, intesa come grafico descritto da colui che s’inabissa, e la illustra in Hilarotragoedia (1964, edito oggi da Adelphi). Ma non basta, Manganelli va oltre.
Le tre parti di Hilarotragoedia: balistica esterna – angosce e addii – discesa nell’Ade.
Pagina dal quaderno di appunti per Hilarotragoedia, conservato presso il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Da Bricchi, 2002.
Digressione. Le prime armi da fuoco funzionavano più o meno così: si inseriva la polvere da sparo, si metteva la palla, si accendeva la miccia, e il proiettile veniva scagliato lontano. Per molto tempo, le menti migliori al prezzo dei sovrani si interrogarono su quale correlazione esistesse, fra la quantità di polvere da sparo e la distanza massima raggiungibile dal proietto. Non si trovava una soluzione soddisfacente.
Finché all’inizio del 1700 Jacques Cassini (figlio di Gian Domenico Cassini, quello della Sonda Cassini) e Benjamin Robins (figlio di una povera quacchera del tipo: Grace Kelly in Mezzogiorno di fuoco), entrambi coinvolti nell’invenzione del pendolo balistico, capirono che bisognava intervenire diversamente: era imperativo separare lo studio della balistica interna (come il proiettile viene spinto lungo e poi fuori dalla canna) dalla balistica esterna (come il proiettile disegna la sua traiettoria). Un’intuizione fondamentale: se il polso della prima sono infatti la termodinamica e la chimica, la seconda si nutre di meccanica e fluidodinamica.
A Giorgio Manganelli non è sfuggito questo particolare e nel suo vagare per le forme dello scrivere, nelle sue traiettorie che sfiorano e avvolgono il romanzo senza mai colpirlo, giunge a formulare “un trattatello, un manualetto teorico-pratico” che aiuti a gestire la propria morte. È l’Hilarotragoedia, nella quale, per dirlo con le sue parole, la balistica interna, clandestina e oscura, descrive le volute, le contorsioni, i giramenti verso lo scoprimento del percorso liberante. La balistica esterna invece si occupa dell’esplosa abbagliante coscienza, del sì detto al no, del no detto al sì, in modo allegro e allegrante, tanto che il sapere di esser vivo conta nella misura in cui si sa di essere morto.
E questo parallelismo non è sfuggito nemmeno a Mirko Zilahy, che Manganelli l’ha studiato e insegnato durante il dottorato al Trinity College, e che nei suoi thriller caratterizza il commissario Enrico Mancini proprio per la consapevolezza che la balistica, la gravità, incidono sulla parabola discendente dell’esistenza (È così che si uccide – 2016; La forma del buio – 2017; Così crudele è la fine – 2018; editi da Longanesi).
Non c’era quindi solo supponenza nel novecento e ce lo dimostra anche Ray Bradbury, che in Fahrenheit 451 smantella un mito fondante degli Stati Uniti d’America: il vigile del fuoco.
USAG- Humphreys, CC BY 2.0
Per noi europei, abituati alle case in pietra, mattoni pieni, forati quando va male, il vigile del fuoco è quasi un lusso, qualcuno deputato a soccorrere i gattini in difficoltà. E poi chissà se fu davvero Gabriele D’Annunzio a coniare quella locuzione che, nel ’38, rimpiazzò il Corpo pompieri, o se invece, come dicono alcuni, la fece solo propria.
Articolo 1, Regio Decreto Legge 16 giugno 1938, n. 1021: Nel Regio Decreto Legge 10 ottobre 1935-XIII, n. 2472, ed in ogni altro provvedimento, che vi abbia attinenza, alla parola «pompieri» si intendono sostituite le altre «vigili del fuoco».
Ma per i popoli che abitano le case di legno, il vigile del fuoco rappresenta quella sottile linea che separa una città che esiste da una che non esiste più. È così per i giapponesi, che vedono Tokyo bruciare da secoli (come nella storia di Yaoya Oshichi, quando la città ancora si chiamava Edo e i pompieri si tatuavano l’immagine di Unryu, dragone delle nuvole), ed è così per i nordamericani con le loro metropoli liquide. Bradbury però se ne frega, ha bisogno di qualcosa di forte se vuole parlare di letteratura e trasforma gli eroi di un mito fondante, i vigili del fuoco, in para-nazisti deputati a bruciare in sicurezza i libri, il sapere, il passato, e quindi anche il futuro. E come solo i grandi autori sanno fare, mette i suoi personaggi al limite. Un uomo, che non ha mai letto nulla nella sua vita, si scontra con le Memorie dal sottosuolo, l’opera che segna l’inizio della grandezza di Fëdor Dostoevskij. Il suo personaggio peggiore, invece, riesce a esibire una spiegazione gelida e diretta del perché stia facendo ciò che sta facendo:
Un libro è una pistola caricaRay Bradbury
Simon, CC BY-NC-NS 2.0
Ponti aspira a collegare. Connessioni fra saperi e settori diversi che sembrano, sembravano forse soltanto, inconciliabili.