Dallo scorso agosto è entrata in vigore la legge n. 69/2019, detto anche “Codice Rosso”, con lo scopo di intervenire sulle criticità legate alle indagini sui reati commessi in ambito famigliare.
La riforma del Codice Rosso ha funzionato? Sta funzionando? È forse presto per dirlo, il sistema non si ancora adeguato, ma qualcosa si può accennare, soprattutto perché gli uffici di polizia e le procure di tutta Italia hanno già riscontrato alcuni problemi. Ma andiamo in ordine.
Nel 2005 ho iniziato a occuparmi di reati in famiglia, come ispettore della Squadra Mobile. L’ho fatto per molto tempo, e per più di tre anni sono stato Responsabile della Sezione Reati contro la persona. Ho svolto migliaia di indagini, centinaia sui reati in famiglia, e le ho seguite dalle fasi iniziali fino alla conclusione dell’iter giudiziario, e per capire come farle girare al meglio, bisogna capire come funzionano.
1. La denuncia
La fase iniziale è quella del contatto fra la vittima e le forze di polizia. Spesso una persona maltrattata, vittima di abusi fisici, sessuali o psicologici all’interno dell’ambiente famigliare, impiega molto tempo per decidere di rivolgersi alla polizia. Paura, vergogna, mancata comprensione del disvalore di ciò che subisce, mancanza di prospettiva, incapacità di vedere una via d’uscita e molto altro: sono tutti ostacoli che possono bloccare una vittima per mesi o anche per anni.
Ma quando viene presa la decisione di denunciare, spontaneamente o perché spinti da amicizie o dalla “rete” (servizi sociali, centri di ascolto, strutture sanitarie, etc), il primo ostacolo sono i poliziotti (o carabinieri) che devono verbalizzare le dichiarazioni.
Sfatiamo un mito: non serve una “preparazione” particolare per verbalizzare le dichiarazioni di una vittima di reato in famiglia. Serve la voglia. Bisogna mettersi lì e farsi raccontare la lunga e circostanziata lista di eventi, collocati in un preciso quadro spazio temporale, i possibili riscontri (testimoni, interventi delle pattuglie, accessi al pronto soccorso, etc), e ogni altro elemento utile. Si lavora così per le rapine, si lavora così per la criminalità organizzata, e si lavora così anche per i reati in famiglia. Quello che manca ad alcuni quindi è soltanto la voglia, ed ecco che spuntano verbali lunghi mezza pagina, anziché le dieci pagine necessarie, e accade solo per mancanza di voglia.
Ho parlato di riscontri, che sono essenziali, perché il nostro sistema giuridico richiede che la condanna, ma anche il rinvio a giudizio e le misure cautelari, si basino su elementi concreti, circostanze provate con certezza: per questo la verifica del racconto di qualunque vittima è un passo prioritario. Questo è un punto importante su cui si tornerà.
2. L’avviso all’Autorità Giudiziaria (PM)
La forza di polizia che prende una denuncia deve inoltrare Comunicazione di Notizia di Reato (CNR) all’Autorità Giudiziaria. Questo dice il codice. Ma quando deve essere fatta questa CNR?
Quando l’attuale codice di procedura penale entrò in vigore, nel 1989, era prevista la trasmissione per iscritto della CNR entro 48 ore. Questo provocò un ingolfamento delle procure italiane, alle quali arrivavano una moltitudine di CNR prive di qualunque approfondimento (non si può svolgere ogni indagine in 48 ore), e quindi di ogni utilità. Si decise quasi subito di modificare la norma e alla fine dell’iter, nel 1992, venne stabilito che la polizia “senza ritardo, riferisce al pubblico ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti”. Fu stabilito anche che il PM venisse avvisato immediatamente, eventualmente anche in forma orale, solo per alcuni reati gravi (come ad esempio l’omicidio).
Nel 1989 imparammo che la polizia ha una funzione fondamentale nel selezionare i reati più urgenti per cui operare, sui quali investigare celermente, e nel raccogliere elementi concreti prima di inoltrare le comunicazioni di legge alla magistratura. Selezione e raccolta di elementi, questi sono i punti chiave.
Quando iniziai a investigare sui reati in famiglia e contro le fasce deboli, molti reati neppure esistevano, tra cui lo stalking. Altri, come i maltrattamenti, venivano trattati come delitti ancillari. Ad esempio, era difficile che si arrestasse in flagranza per maltrattamenti, e il motivo è anche giuridico: picchiare una volta il proprio convivente non integra il reato, che dev’essere abituale, la violenza dev’essere ripetuta. Ma le cose stavano cambiando, e grazie alle intuizioni dell’allora dirigente della Squadra Mobile e di alcuni operatori capaci, le Volanti intrapresero un percorso diverso: quando le pattuglie intervenivano in flagranza (di lesioni), si sforzavano di verificare celermente l’eventuale esistenza di altri interventi delle forze di polizia o accessi al pronto soccorso, di precedenti denunce o segnalazioni, e in caso positivo procedevano all’arresto in flagranza del responsabile per maltrattamenti (potevano dimostrare l’abitualità) risolvendo il problema per la vittima. Una procedura che col tempo è diventata routine, ma che allora trovava qualche resistenza. Nello stesso periodo un giovane magistrato, assegnato da poco a quel tipo di reati, aveva ideato una nuova strategia di gestione delle indagini preliminari: anziché farsi trasmettere la sola denuncia subito, senza riscontri né approfondimenti, chiedeva alle forze di polizia di valutare la gravità del caso concreto, e investigare celermente per le situazioni più a rischio, acquisendo tutta la documentazione necessaria (da medici, servizi sociali, forze di polizia etc), sentendo a verbale tutti i testimoni, inviando quindi l’indagine completa. In questo modo egli era in grado di valutare l’attività nel suo insieme, e poteva chiedere immediatamente una misura cautelare, avendo a disposizione tutti gli elementi investigativi.
Ed ecco il punto cruciale del Codice Rosso, perché l’intervento concreto a tutela della vittima si ha quando la persona violenta viene posta nella condizione di non nuocere, e quindi allontanata con la coercizione dalla sua vittima, e questo si può fare (secondo la nostra Costituzione) solo con una misura cautelare emessa da Giudice.
3. Le misure cautelari
La legge 69/2019 individua come punto debole della catena investigativa la polizia, e quindi la obbliga a trasmettere subito ogni denuncia raccolta per reati “in famiglia”. Questo è un notevole scarico di responsabilità per le forze di polizia, che sono autorizzate quindi a inoltrare la denuncia, evitando ogni ulteriore indagine per la necessità di rispettare i termini di legge.
Il magistrato a quel punto dovrebbe, secondo il Codice Rosso, risentire la vittima (e/o il denunciante) entro tre giorni. Questo presuppone che la prima volta la vittima sia stata sentita in modo superficiale, oppure che in tre giorni sia accaduto qualcosa di nuovo. In entrambi i casi, questo “risentire la vittima” difficilmente aggiungerà elementi probatori sufficienti a ottenere una misura cautelare (allontanamento dall’abitazione, divieto di avvicinamento, carcere, etc), la cui emissione è demandata al GIP, il quale però deve basare la sua valutazione solo su elementi concreti, quali i riscontri alle dichiarazioni della vittima. Ma il Codice Rosso nulla dice riguardo al proseguo delle indagini: basta che il PM risenta la vittima entro tre giorni ed è finita lì.
La norma insomma sembra suggerire che la polizia (la quale ricordiamo è stata la prima a sentire la vittima) non sia in grado di provvedere a una corretta valutazione della situazione, e che serva un magistrato, preparato, laureato, e tutto il resto, per compiere questa valutazione, dopo aver parlato personalmente con la vittima di maltrattamenti o violenza. Ammettiamo che sia così. Peccato che, nella realtà, la vittima sarà risentita di nuovo dalla polizia (entro tre giorni), perché praticamente tutte le procure d’Italia hanno già dato disposizione, visto che la legge non lo vieta, di delegare questo “risentire la vittima entro tre giorni” alla polizia (o ai carabinieri).
Quindi cosa accade in concreto:
– la vittima sporge denuncia davanti a un poliziotto (o carabiniere);
– la denuncia viene mandata al PM in modo lesto;
– il PM delega un poliziotto (o carabiniere) affinché risenta la vittima in modo lesto;
– un poliziotto (o carabiniere) risentono la vittima in modo lesto.
Tutta questa lestezza ha prodotto qualcosa? Probabilmente la vittima di reato si sente rassicurata, è stata ricontattata a breve (che è una delle cose fondamentali da fare: mantenere un contatto fra l’ufficio di polizia e la vittima di reati famigliari, sia per rassicurazioni di tipo emotivo che per monitorare l’andamento della situazione, in attesa delle decisioni del GIP). Ma dal punto di vista delle misure concrete nulla è avanzato, perché è proprio il GIP il punto cardine: è inutile “risentire la vittima entro tre giorni” se poi i riscontri vengono cercati dopo settimane; se il PM tiene poi il fascicolo sulla scrivania per mesi, senza inoltrare la richiesta di misura cautelare al GIP; se il GIP si prende mesi per decidere sulla misura cautelare.
Ed è impossibile pensare che un PM senta personalmente tutte le vittime di reato; la pianta organica delle procure prevede un numero di pubblici ministeri basso, in rapporto alla popolazione, e se i PM fossero impegnati nel risentire personalmente tutte le vittime, chi svolgerebbe i compiti che invece sono di loro competenza? Ogni PM può avvalersi della collaborazione, sul territorio, di centinaia se non migliaia di poliziotti, e li usa, e li deve usare.
Questo Codice Rosso accelera in modo esplosivo la fase iniziale dell’attività investigativa (producendo anche ingolfamenti), ma ignora completamente quelle successive, ben più pregnanti dal punto di vista dei risultati da raggiungere. Presuppone insomma che tutta la colpa di eventuali inefficienze siano da attribuire alla polizia, quando invece, analizzando in modo approfondito lo sviluppo dei casi finiti in tragedia, si può apprezzare che la colpa è più o meno di tutti: dalle pattuglie che intervengono alle squadre investigative, dal PM al GIP, dal magistrato di sorveglianza ai medici, dal vicino di casa ai famigliari. Così come, esattamente delle stesse persone, sono i meriti per i successi silenziosi, per le vittime salvate prima che fosse troppo tardi, per le gestioni complesse di situazioni al limite. E si tratta di successi che passano sovente per soluzioni all’italiana, ovvero soluzione nelle quali lo Stato non si comporta da alleato, ma da produttore instancabile e insensato di ostacoli.
[Questo e molti altri argomenti simili sono approfonditi nel mio libro Delitti e castighi, Metodi di indagine e balistica raccontati da un ex poliziotto ad uso di scrittori e appassionati di cronaca nera, Dino Audino Editore, prefazione di Giancarlo De Cataldo. Lo trovi in libreria, su Amazon, ibs e gli altri internet book store]
Scrivere il genere è uno svelamento.
Di come funzionano (davvero) le indagini, di cosa accade (davvero) quando si usa un’arma da fuoco