“Amato dalle donne, inseguito dalle volanti” si tatuano i più brillanti. Ma cosa succede quando la fuga dalle volanti finisce male? Abbiamo già parlato delle investigazioni, di omicidi difficili da individuare, di pedinamenti e intercettazioni, ma cosa succede quando le indagini individuano un possibile colpevole?
A quel punto succedono fermo, arresto, cattura. Ci sono tanti modi nei quali un paio di manette finiscono attorno ai polsi, ma la terminologia è spesso confusa.
Partiamo dalla Costituzione (articolo 13): nel nostro paese sia la detenzione che ogni altra limitazione della libertà personale sono di competenza dell’Autorità Giudiziaria, la quale deve operare secondo la legge e motivare i propri provvedimenti. Questo è un punto fisso, ma lo stesso articolo prevede la possibilità che “in casi eccezionali di necessità e urgenza” le autorità di pubblica sicurezza possano operare limitazioni provvisorie della libertà personale, sulle quali però il Giudice deve intervenire prontamente per valutare se è stato fatto tutto a dovere. Se così non è, quelle limitazioni provvisorie sono revocate e perdono ogni effetto.
Stiamo parlando, innanzitutto, dell’arresto in flagranza. Quando la polizia incappa in un reato che è in corso di esecuzione (stato di flagranza) la legge riconosce la facoltà di procedere all’arresto. Ma non sempre si può arrestare, è consentito solo per i reati di una certa gravità; ad esempio non si può procedere all’arresto per tentata truffa (tranne quando la vittima è anziana e altri casi particolari), non si può arrestare per detenzione di materiale pedopornografico (a meno che non si tratti di tanta tanta roba), non si può arrestare nemmeno per adescamento di minorenni o uccisione di animali.
Per alcuni reati la flagranza dura sempre e quindi si può arrestare sempre: detenzione di droga o armi illecite, sequestro di persona. Per altri la flagranza finisce subito, come per il furto o la ricettazione: perciò chi viene trovato alla guida di un’auto rubata dopo qualche ora dal furto non può essere arrestato.
Se addosso al sospettato vengono rinvenute tracce o altri elementi da cui si può dedurre che quella persona ha appena commesso il reato, la polizia può arrestare anche se la flagranza è finita (quasi flagranza). È il caso in cui, appena dopo un omicidio, un sospettato venga trovato in possesso del coltello insanguinato; oppure se un rapinatore viene pescato, qualche ora dopo i fatti, col bottino sottratto alla banca.
Ma tolti questi casi particolari, una volta passata la flagranza la polizia non può più arrestare, è finito il suo momento.
Negli USA è diverso (lo vediamo nei film): lì la polizia può arrestare sempre, basta che abbia qualche elemento contro una persona e può procedere. Se ad esempio un Detective pensa di aver raccolto indizi riguardo a un omicidio accaduto dieci anni prima, non si fa tanti problemi, va a casa del sospetto e lo arresta. Dopodiché lo conduce davanti a un giudice il quale decide riguardo a custodia, libertà, cauzione.
Quando ho spiegato ai miei amici del New York Police Department a quali limiti debba obbedire la polizia italiana per eseguire un arresto, quelli sono impazziti: “Ma così non si arresta più nessuno” hanno detto. C’è da dire che negli USA essere arrestati è quasi una cosa normale, ci passano in molti senza che per questi vengano bollati come criminali: basta una mezza lite, aver bevuto un po’ troppo, violare una qualche legge minore. Però c’è da dire anche che gli Stati Uniti non sono passati per il ventennio fascista, e l’idea della nostra Costituzione è proprio quella di evitare che l’arresto diventi un facile mezzo di controllo della popolazione, da usare fuori dal suo scopo originario, e perciò solo la magistratura ha il potere di disporre limitazioni della libertà personale, tranne i casi eccezionali e urgenti. Proposito encomiabile, anche se la storia degli ultimi settant’anni ha dimostrato che la magistratura non è stata immune da abusi, usi strumentali ed errori anche macroscopici.
Ora, ipotizziamo che la flagranza e la quasi flagranza siano finite; come si fa a incarcerare il responsabile di un reato? In teoria bisogna aspettare la sentenza definitiva. Si pronuncia il Giudice di primo grado, eventualmente quello di appello, spesso la Cassazione, anche più volte, e alla fine verrà emessa una sentenza che dirà: innocente, o colpevole. Se il verdetto è di colpevolezza, allora la polizia procederà a rintracciare il condannato e condurlo in prigione. Questo atto a volte viene chiamato arresto (senza “in flagranza”), ama in realtà la polizia sta eseguendo un “ordine che dispone la carcerazione”. Spesso questi ordini arrivano dopo anni e anni, quando i colpevoli si sono rifatti una vita, e qualche volta si sono perfino dimenticati di quegli antichi processi. La lentezza della giustizia insomma non fa bene a nessuno.
C’è però un’altra possibilità, ovvero che il Giudice decida che una persona deve essere ristretta fin dall’inizio del processo, ad esempio perché potrebbe commettere altri reati, o cancellare le prove: è il caso degli spacciatori o rapinatori di alto livello, e degli assassini, ma anche dei truffatori seriali e di chi fa parte di un’associazione a delinquere. Il Giudice allora, spesso con funzioni di GIP, deve emettere un “ordinanza che dispone la custodia cautelare in carcere” (detta anche OCCC). È un altro modo di “arrestare”, che viene di solito utilizzato quando bisogna smantellare dei gruppi criminali, quelle grosse operazioni di polizia che si vedono in televisione, nelle quali si svolgono decine e decine di perquisizioni e di “arresti”. Ma è così che vengono arrestati anche gli stalker e i soggetti che maltrattano compagni o sposi.
In caso di esecuzione di pena definitiva o di custodia cautelare, il termine corretto non è arresto ma cattura.
Esistono però altri utilizzi della parola “arresto” nel mondo della giustizia, che nulla hanno a che vedere con la flagranza.
L’arresto provvisorio è quello chiesto dagli stati esteri per i delitti commessi all’estero, il cui responsabile sia sul territorio italiano.
L’arresto domiciliare invece è una misura cautelare alternativa al carcere, che prevede che il soggetto, in attesa di processo, non possa uscire di casa.
Per complicare le cose, arresto è anche una pena: per i delitti (omicidio, furto, etc) viene comminata la reclusione; per le contravvenzioni invece (“piccoli” reati sistemati in fondo al codice penale) viene comminato l’arresto. Cosa cambia fra reclusione e arresto? Praticamente niente.
Nemmeno per il fermo c’è più chiarezza.
Il fermo di polizia è qualcosa di molto diverso rispetto a quanto abbiamo visto finora. È l’atto con cui la polizia conduce in ufficio (e trattiene fino a 24 ore) persone prive di documenti oppure con documenti che si sospettano falsi. L’accompagnamento è finalizzato all’identificazione (è di fatto un fermo di identificazione) e il Procuratore della Repubblica ne deve essere subito informato (di solito si manda un fax).
È una norma introdotta cinque giorni dopo il rapimento di Aldo Moro in quanto fino ad allora, trovandosi davanti una persona senza documenti, la polizia non era autorizzata a trattenerla in alcun modo. Ma le ricerche, i pattugliamenti, i rastrellamenti di quei giorni avevano bisogno di essere completi e incisivi, per cui si decise di dotare la polizia di questo strumento emergenziale, che dal 1978 sopravvive ancora oggi.
Un fermo di identificazione molto simile è previsto dal Codice di Procedura Penale del 1989: la polizia può accompagnare presso gli uffici e trattenere fino a 24 ore una persona (che abbia commesso un reato) per fini identificativi. Va avvisato il PM.
Va da sé che le persone sottoposte a fermo di polizia o fermo di procedura penale, una volta finite le esigenze di identificazione, andrebbero subito liberate.
E infine c’è il fermo di polizia giudiziaria, l’atto principe dell’investigatore, il modo in cui i poliziotti veri “arrestano” i criminali.
Immaginiamo che siano arrivati in città dei pericolosi rapinatori. Sono un bel gruppo, armato a dovere, decisi e affamati di soldi. Un portavalori qui, una banca là, qualche ferito e magari durante un colpo ci scappa anche il morto.
Immaginiamo ora che le indagini abbiano permesso di identificare con certezza i criminali: DNA; impronte digitali, telecamere di sorveglianza. Abbiamo trovato nomi e cognomi, non ci sono dubbi.
L’ideale sarebbe arrivare su una rapina in flagranza e riuscire ad arrestarli. Ma purtroppo, o per fortuna, la polizia non è dotata della sezione Precrimine (“Minority report”, dal volume 3 di Le presenze invisibili, Philip K. Dick, in Italia Mondadori poi Fanucci: Tutti i racconti), e perciò questa non è una strada facilmente praticabile.
Pensare di istruire un processo e aspettare (anni) che arrivi la condanna definitiva è da pazzi: quei criminali continuerebbero a compiere reati.
Quello che la polizia fa di solito è scrivere al PM: “Caro PM, guarda che siamo sicuri dell’identità e delle responsabilità di questi criminali, inoltre è probabile che vadano avanti a commettere reati, quindi sarebbe cosa buona e giusta ottenere una custodia cautelare”.
Il PM ci pensa su e, se è d’accordo, scrive al GIP: “Caro GIP, la polizia è sicura dell’identità e delle responsabilità di questi criminali, e sostiene che sia probabile che vadano avanti a commettere reati. Io sono d’accordo, quindi ti dico che sarebbe cosa buona e giusta che tu emetta una custodia cautelare, magari in carcere”.
Il GIP ci pensa su e risponde al PM. O gli dice di no, perché non ci sono i presupposti, oppure emette ordinanza di custodia cautelare. Il PM invia l’ordinanza alla polizia che a quel punto va a cercare i rapinatori e li cattura.
Questo è il modo in cui si fanno normalmente le cose. I poliziotti brillanti invece fanno un fermo di PG.
Attenzione, perché non è semplice: il fermo di polizia giudiziaria è previsto solo in un caso: pericolo di fuga. La polizia ha individuato i criminali, possiede solidi elementi, dovrebbe attendere che PM e GIP facciano tutte le loro cosette, ma gli indiziati stanno per scappare e quindi non c’è tempo di aspettare. La polizia procede allora al fermo di PG.
“Pericolo di fuga” vorrebbe dire che i rapinatori vengono pescati mentre salgono sulla scaletta di un aereo per il Brasile. O quando, dopo aver caricato in auto il bottino, sono diretti verso il tunnel del Monte Bianco. Ma nella realtà dei fatti è molto difficile che qualcuno scappi in modo così plateale. Inoltre non si può eseguire un fermo di PG sostenendo che, siccome i reati sono gravi, se i criminali sospettassero di essere stati scoperti allora scapperebbero, perché è un gatto che si morde la coda, un uomo che si solleva da solo, afferrando i propri capelli come nel trilemma del Barone di Münchhausen.
Ed ecco quindi che nel fermo di PG bisogna esibire un apparato motivazione creativo, fantasioso, ma credibile, che resista alle valutazioni di PM e GIP: non deve resistere come un muro di solida roccia, basta che sopporti gli attacchi a sufficienza perché il GIP (che a quel punto è costretto a decidere in pochi giorni) emetta un’ordinanza di custodia cautelare. Se il lavoro è stato fatto bene il GIP si convincerà, e i criminali, solo grazie al fatto che sono stati sottoposti a un fermo di PG provvisorio ma provvidenziale, resteranno in prigione, per decisione del Giudice come Costituzione vuole. Il problema è stato risolto brillantemente.
Ovviamente è un atto di cui non bisogna abusare, ma in certi casi gravi come omicidi, rapine a mano armata, persone in pericolo di vita e simili, il fermo di PG è una cartina tornasole di quanto un poliziotto sia in grado abile nel risolvere una situazione critica, piuttosto che passivo nel soffocare sotto a montagne di inutile e pericolosa burocrazia.
[Questo e molti altri argomenti simili sono approfonditi nel mio libro Delitti e castighi, Metodi di indagine e balistica raccontati da un ex poliziotto ad uso di scrittori e appassionati di cronaca nera, Dino Audino Editore, prefazione di Giancarlo De Cataldo. Lo trovi in libreria, su Amazon, ibs e gli altri internet book store]
Scrivere il genere è uno svelamento.
Di come funzionano (davvero) le indagini, di cosa accade (davvero) quando si usa un’arma da fuoco